Trame News

Responsive Image

Numero del

4 settembre 2021

Cambia numero

  • Focus second slide
  • Focus fourth slide

Aggregatore Risorse

Donne contro la ‘ndrangheta

Condividi:

di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

Francesca Chirico, autrice del libro Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta  e Alessandra Cerreti, magistrato che si è occupato dei due casi in discussione, descrivono le vite e l’esempio di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, giovani donne e madri nate e cresciute nel mondo della criminalità organizzata, le prime in Calabria a scegliere di denunciare le proprie famiglie, nomi importanti della ‘ndrangheta, allontanandosi dalla vita che altri avevano scelto per loro.
In queste vicende si parla di famiglia, centro di gravità per le donne che nascono nella mafia; il ruolo delle donne è infatti indissolubilmente legato al nucleo familiare, tanto che dice Cerreti “il vincolo criminale e quello affettivo nella ‘ndrangheta si sovrappongono perfettamente”. Messaggere tra chi è dentro e fuori dal carcere, intestatarie di beni, intermediarie per racket e usura, le donne rivestono un ruolo fondamentale nella famiglia. Più di tutto sono però madri e in quanto tali educatrici alla cultura mafiosa. Sono garanti dell’apparato culturale, ideologico, fatto di valori e disvalori che stanno alla base della famiglia, apparato che viene messo in discussione quando le due donne decidono di collaborare e testimoniare. 
Nel 2010, quando le due vicende prendono il via, Giuseppina e Maria Concetta hanno circa trent’anni, sono sposate dall’età di tredici. Hanno cresciuto i loro figli da sole come vedove bianche, la definizione che si dà delle spose di carcerati. Provate dai vincoli cui sono costrette dalla malavita,  non vogliono che i figli vivano come loro, che siano costretti a sposare chi non vogliono, che non possano studiare ciò che vogliono, che non possano scegliere il mestiere che vogliono. Sono i figli a fungere da molla nelle due vicende e a convincere “Giusy e Cetta” a denunciare nella speranza di garantire loro un futuro migliore.
Giuseppina viene arrestata nel 2011 insieme ad altri quaranta componenti della famiglia Pesce, il più potente mandamento di ‘ndrangheta calabrese. Non era l’unica donna nel processo; arrestate con lei tre generazioni della cosca Pesce: la sorella, la madre, la nonna. A queste donne viene contestata, insieme ad altre imputazioni, l’appartenenza all’associazione mafiosa, con i ruoli sopra descritti.
Giusy viene separata dai figli. Prima dell’arresto non aveva mai dormito lontano da loro, questo è il suo tormento, tanto da portarla a simulare più volte il suicidio sperando che questo espediente le permetta di uscire dal carcere. Questo sentimento di disperazione è quello che nei mesi di detenzione la spinge a cambiare atteggiamento. Dopo reiterati tentativi di suicidio fasulli arriva in procura una sua missiva: “voglio essere sentita senza il mio avvocato”. Durante il colloquio si profila la possibilità di libertà per i suoi figli, di concedere loro una nuova vita: questo funge da motore per l’inizio della collaborazione, fatta di alti e bassi.
Nell’aula bunker di Palmi al maxiprocesso del 2011/2012 il clima è teso anche perché ad accusare i Pesce sono donne (PM, collegio giudicante e le due collaboratrici di giustizia) e ai Pesce, come alla ‘ndrangheta in generale, non piacciono le donne fuori dal loro controllo – chiederanno finanche di sostituire il magistrato donna con un uomo. La collaborazione provoca una reazione più che proporzionale rispetto al contributo conoscitivo che Giuseppina Pesce ha dato alla magistratura (si parla di beni sequestrati per 250 milioni di euro); l’aspetto che più destabilizza ed offende i Pesce non sono le conseguenze delle dichiarazioni di Giuseppina ma che la donna abbia dimostrato che ci si può ribellare al loro dominio. “Le donne come te ci vogliono togliere il potere” dirà un parente della Pesce.
Il precedente creato da Giuseppina Pesce è galeotto nella vicenda di Maria Concetta Cacciola: è l’effetto che più temono le cosche, che episodi di questo tipo fungano da esempio.
Maria Concetta si reca in commissariato per risolvere delle pratiche amministrative e incontra una giovane marescialla con la quale sente di aprirsi e raccontare la propria storia: è in un brutto periodo della sua vita, sposata giovanissima e con figli da crescere da sola perché il marito è in carcere, si innamora di un altro uomo conosciuto su internet. A casa sono arrivate lettere anonime in cui si sdogana il suo “cattivo comportamento” e fanno temere alla giovane che il fratello “possa andare da lei e dirle di seguirlo per poi portarla in campagna e ucciderla”. Viene messa sotto protezione ma decide di non portare con sé i figli, che verranno usati come arma di ricatto da parte della famiglia che la costringerà a tornare a casa e ritrattare le proprie dichiarazioni. Solo dopo aver ritrattato si renderà conto dell’errore commesso e inizierà a temere per la sua vita; si metterà in contatto con le forze dell’ordine per organizzare una nuova fuga ma il tempismo sarà fatale: verrà ritrovata sfregiata dall’acido. Maria Concetta Cacciola muore il 20 agosto 2011.
La ‘ndrangheta vive di simboli: l’acido muriatico si usa per scrostare il water: “tu mi tradisci con la bocca e io ti punisco dalla bocca”, spiega Cerreti. Inoltre, anche solo un sorso è in grado di creare escoriazioni tali da distruggere gli organi interni. Se un sorso procura questo è bene ricordare che la Cacciola ne avrebbe bevuto un litro per il suo presunto suicidio. Per i familiari l’immediata preoccupazione sarà depositare il nastro di ritrattazione e una denuncia contro il magistrato. Ne nascerà un circo mediatico volto a smontare il sostrato delle dichiarazioni rese da Cacciola, non riuscito grazie all’ottimo lavoro della magistratura.
Con Cacciola finiscono le collaborazioni delle donne di mafia, il cupo finale della vicenda segna un freno. Dalla riflessione nasce il protocollo Liberi di Scegliere, una struttura che mira alla tutela delle collaboratrici e dei loro figli.
“Mi piace immaginare la morte di Maria Concetta non come un sacrificio inutile, ma l’inizio di un percorso in evoluzione che permetta di aiutare tante donne e i loro figli” dice Cerreti. Le due erano giovani donne per le quali la denuncia ha avuto una funzione quasi liberatoria, di autoriflessione, conviene Chirico. “I loro racconti descrivono una realtà da far west dove c’è solo un “noi”, la famiglia e un “loro”, le forze armate”. Tutto il resto, quello che sta nel mezzo, non è mai esistito nella vita di queste donne. Queste due giovani consegnano a tutti noi uno spaccato di vita sul quale siamo chiamati a riflettere, prima di tutto sul piano culturale.

Cambiamo le regole del “gioco”

Condividi:

di Paola Costanzo e Lorenzo Zaffina

La quarta giornata di Trame 10 vede come ospiti Giulia Migneco e Maria Antonietta Sacco (Avviso Pubblico) intervistate dal giornalista Antonio Chieffallo. Il tema dell’incontro è "Mafie d’azzardo: come crescono nella pandemia”.
L’Italia è sempre stata considerata, specie negli ultimi tempi, un paese povero economicamente. La cosiddetta "crisi” dura ormai da un sacco di tempo e gli italiani stessi ne soffrono e si sentono sempre meno ricchi. Alla luce di ciò, com’è possibile che il popolo italiano regali miliardi di euro alla filiera del gioco d’azzardo? Nel nostro Paese le giocate d’azzardo sono aumentate dell’800% negli ultimi 20 anni, arrivando a raggiungere solo nel 2019, secondo Avviso Pubblico, giocate per 74 miliardi di euro. Quello che forse viene ignorato è che l’azzardo ha solo nel nome la parola "gioco", ma in realtà tutto è tranne che quello: dipendenza, rovina economica, ma anche e soprattutto la costante presenza della criminalità organizzata che usa i canali d’azzardo per portare avanti i loro affari criminali. Infatti, come scrive nella prefazione del libro Federico Cafiero de Raho (procuratore nazionale antimafia), "la partecipazione fisica ai punti di raccolta delle scommesse consente ad esponenti della criminalità organizzata di offrire ai giocatori patologici sostegno economico, che si attua con le tradizionali forme del prestito a usura, cui si accompagnano le modalità estorsive di recupero”. La mafia controlla il territorio comprando sale scommesse, slot machine, gratta e vinci, producendo macchine stesse e decidendo chi deve gestirle.
“In Calabria non c’è un posto in cui dietro alla macchinetta non ci sia un clan”.
L’obiettivo del libro “La pandemia d’azzardo”, presentato nel corso dell’incontro, è quello di evidenziare il problema, consapevolizzare le persone, sensibilizzare sull’argomento, come d’altronde Avviso Pubblico fa da 25 anni per tutti i tipi di fenomeni urgenti che riguardano la legalità nei territori e la tutela dei cittadini.
Esiste un legame non facile da correlare tra azzardo e crisi, ma esiste anche fra azzardo e pandemia: è vero che durante l’emergenza covid sono state bloccate tutte le attività, ma è anche vero che l’online è diventata l’uscita d’emergenza. Durante il lockdown è esploso il gioco illegale a causa della contrazione di quello legale, non solo online nei canali illegali - è difficile distinguere un sito legale da uno illegale - ma anche nelle sale da "gioco nero".
Si fa appello allo Stato, che da anni è il primo a dipendere dal gioco d’azzardo. Si parla di miliardi di euro che entrano e di altri che ritornano ai giocatori sottoforma di vincite.
Si fa appello alle forze dell’ordine, ai controlli che molto spesso scarseggiano, poiché è difficile individuare l’associazione mafiosa dietro la gestione del gioco d’azzardo, associazioni che negli ultimi anni, specie di pandemia, sono sempre più infiltrate.
Si fa appello alle regioni e ai comuni, si invitano ad utilizzare regolamenti collettivi per dimezzare il gioco d’azzardo, controllarlo.
Si fa appello alle famiglie, poiché il numero di giovani e giovanissimi che si avvicinano al gioco sono aumentati. Si inizia con i classici videogiochi che portano dipendenza e portano a spendere soldi – infatti dall’anno prossimo sarà inserita, fra le dipendenze, anche quella da videogioco – per poi passare all’azzardo vero e proprio. Bisogna monitorare, far capire ai ragazzi cosa comporta giocare costantemente e a spendere soldi nel gioco. Perché arrivare alla dipendenza è facilissimo, ammetterla e uscirne è la cosa più difficile.
Non si può eliminare il gioco d’azzardo perché significherebbe offrire miliardi di euro alla mafia, ma lo si può controllare. Lo Stato anni fa ridusse le Slot Machine del 35% sul territorio italiano e sono state create App per i comuni con lo scopo di monitorare le persone che vanno a giocare e le fasce orarie, c'è più consapevolezza del problema rispetto a prima, ma questo non basta. Ogni regione dovrebbe portare avanti azioni di sensibilizzazione e di informazione, perché il gioco d’azzardo non conosce limiti, né di età né di classe sociale.
Bisognerebbe comprendere che questo è un problema per tutti. Avere questa consapevolezza è il primo step.

Visibile e Invisibile: il rapporto massoneria-mafia

Condividi:

di Lorenzo Zaffina e Valentina Ciambrone

E’ tipico parlare di un’affinità genealogica tra massoneria e mafia. Ma quanto è corretta questa interpretazione?
Si è cercato di dare una risposta a questo interrogativo nel dialogo avvenuto durante la quarta giornata del festival Trame.10, che ha visto intervenire Giuseppe Lombardo, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e, in videocollegamento, John Dickie, docente di storia italiana presso l’University College di Londra. 
Su domanda del giornalista Rocco Vazzana, moderatore dell’incontro, il professore spiega cosa si intenda esattamente per massoneria. “La massoneria, in quanto tale, non esiste. Non è un’unica organizzazione, un’unica rete”. Per questo motivo, non bisogna criminalizzare la massoneria regolare, confondendola e mescolandola con la criminalità di stampo mafioso: sono, invece, le “componenti infedeli” a sporcare l’immagine che ne ha l’opinione pubblica a riguardo.
Quando ci si riferisce alle “massomafie”, non si deve pensare a un accordo tra le due parti, ma intendere l’influenza delle logiche massoniche che guidano le componenti alte della mafia. Queste si ispirano a quei riti e quelle regole di vita che sono le fondamenta delle logge. 
Lombardo spiega come oggi ci troviamo di fronte ad una contrapposizione tra una ‘ndrangheta della sostanza e una ‘ndrangheta dell’apparenza. La prima, invisibile e nascosta, è quella che comanda, la seconda, chiara ed evidente, è una mafia ancora legata a retaggi territoriali ormai superati. Quest’ultima per tradizioni comuni sembra dominante, ma in realtà è succube di un sistema più alto e complesso. 
 Il Procuratore continua spiegando come sia la parte irregolare della massoneria ad entrare in contatto con la parte alta della mafia, pur non essendovi una completa compenetrazione diretta tra le due parti. E’ qui che entra in gioco il concetto di massoneria deviata.
L’incontro fornisce un’istantanea sul complesso tema del rapporto massoneria-mafia, i cui confini si confondono e sembrano sfumare. Per avere un quadro completo del fenomeno, sostiene Lombardo, “bisogna investire su percorsi di formazione evoluti” che forniscano gli strumenti adatti a capire e riconoscere cosa è mafia e cosa non lo è, per rendere visibile l’invisibile.

Il carcere può essere un luogo di redenzione? Si eviti l’identificazione tra persona e il reato: parliamo di persone.

Condividi:

di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

Il primo incontro della terza giornata di Trame Festival è dedicato al tema del sistema carcerario italiano. Al dibattito hanno partecipato Cosima Buccoliero, vicedirettrice dell’Istituto Penitenziario di Opera, e Giovanni Tizian. Cosima Buccoliero proviene dall’esperienza di dirigenza di un carcere “modello”, quello di Bollate, una realtà carceraria che dà reale possibilità di reintegrazione ai suoi detenuti. Oggi si rapporta a una realtà ben più dura, interfacciandosi con numerosi detenuti al 41bis. La questione centrale introdotta da Giovanni Tizian è delicata e complessa: come spiegare ai cittadini che il carcere non è solo violenza, quella violenza che fa cronaca come nelle recenti circostanze impresse nelle immagini di Santa Maria Capua Vetere, ma è e può essere qualcosa di diverso?Buccoliero, consapevole di come queste immagini siano ben impresse nella riflessione collettiva del momento, risponde che non possiamo e non dobbiamo dimenticare questo tipo di episodi. Le vicende di S. M. Capua Vetere non possono essere liquidate come “episodi sporadici delle classiche mele marce. Sono il sintomo che qualcosa nelle carceri non funziona, di una ferita non solo alla democrazia ma per tutti quelli che lavorano duramente perché tutto funzioni”. 
Buccoliero nota infatti che la Ministra Cartabia e il Presidente Draghi si sono recati immediatamente a S. M. Capua Vetere per far sentire la presenza delle Istituzioni, e spera che questo sia indice di un'apertura alla riflessione sull’argomento penitenziario.Il Covid ha reso tutto più difficile, si rischia di far cadere nel vuoto queste istanze e sollecitazioni al cambiamento e ciò non deve accadere. Bisogna fare una riflessione critica. Benché l’Italia si trovi a un livello simile agli altri paesi europei, c’è ancora molto da fare nella tutela dei diritti dei detenuti e nella riforma del sistema carcerario.Con Bollate è stato relativamente più facile istituire una realtà nuova in quanto il carcere è stato costruito da zero, tenendo conto anche degli spazi necessari rendere efficienti le attività; non per questo però una realtà del genere non è realizzabile anche in altri luoghi. 
Tra le più recenti iniziative spicca la creazione di un asilo nido, aperto per i figli dei dipendenti, dei detenuti e della comunità cittadina. I risultati dell’iniziativa testimoniano che il carcere non solo riceve ma può essere al servizio del contesto in cui si colloca. Oltre agli spazi, serve un ampio apparato di risorse formative, personale qualificato per favorire lo svolgimento delle attività. Quello che serve non sono nuove carceri, ma una nuova filosofia. 
Non basta la legge, dice Buccoliero, in concreto deve esistere un pensiero che sia alla base del progetto per creare tutte le condizioni per l’attuazione della legge. In carcere, nota, l’organizzazione si basa molto sulle consuetudini: l’istituzione chiede il cambiamento da parte dei detenuti, però resta sempre uguale a sé stessa. Non cambia mai e non è disposta a farlo. Questo è un dato di fatto, indice di un problema che è indispensabile affrontare. Serve la volontà da parte tanto dello Stato quanto della comunità, che “deve chiedersi se vuole che i condannati marciscano in galera o tentino di riprendersi la propria vita ed emanciparsi”.
Tizian introduce inoltre il tema del reinserimento e delle opportunità fornite agli ergastolani, che come ricorda Buccoliero sono poco più di mille in tutta Italia e possono comunque accedere a permessi premio e alla libertà condizionale. La certezza del diritto, ricorda Buccoliero, è assicurata dalle sanzioni previste per fattispecie penali specifiche, ma il nostro ordinamento costituzionale prevede anche la flessibilità della pena, che dà speranza alle persone: “non si può lavorare con chi non ha speranza, sarebbe come condannarli a morte”. Il focus della riflessione si sposta poi sui detenuti al 41bis, il cosiddetto “carcere duro” che, dice Buccoliero, non lascia spiragli di interpretazione e non ammette nessuna deroga: si vive in solitudine praticamente tutta la giornata. Nel 41bis non c’è spazio per la socializzazione. Le aperture ci sono però dove ci sono competenze proprie e la volontà di uscire da questo regime: molti detenuti studiano all’università, altri, passati dal 41 bis sono arrivati alla media sicurezza, al regime comune. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema, avvalorando la tesi secondo la quale un ergastolo che non prevedesse la possibilità di uscita sarebbe anticostituzionale.
È quindi spontaneo domandarsi perché un assassino, uno stupratore, un ladro dovrebbero avere un’altra opportunità. Buccoliero sostiene che si debba evitare l’identificazione tra persona e il reato: parliamo di persone. Una condanna scontata non può e non deve essere vincolante a vita. Ci sono le sentenze, ci sono le condanne, ma non è tutto qui. Racconta dell’esperienza delle “biblioteche viventi” a Bollate, in cui i detenuti raccontano le proprie storie a persone esterne: ciò determina un cambiamento di atteggiamento immediato in queste persone che si domandano se in effetti chi ha commesso un reato possa essere riabilitato in società.
Proprio grazie al successo del “modello Bollate” molti detenuti fanno richiesta per esservi assegnati. Prima della pandemia, almeno 350 dei 1350 detenuti del carcere uscivano per svolgere attività per motivi di lavoro o di studio e “questo non ha creato allarmismo nella città di Milano [...] Non ci sono state grandi criticità, questo vuol dire che funziona. La fiducia riposta nei confronti di una persona, di uscire anche prima della data prevista dalla sentenza di condanna evidentemente funziona”. Buccoliero ricorda quindi esperienze positive di detenuti che in carcere vengono inseriti nei percorsi CiscoSystems, che permettono di acquisire certificazioni di formazione professionale e essere assunti da aziende. Bisogna mettere insieme le sinergie, la sensibilità del territorio fa la differenza. Non è facile avere a che fare con il carcere, però quando si riesce a trovare una quadra tra garanzia di sicurezza e garanzia di trattamento si ha successo. La pena è infatti un fatto sociale, che riguarda l’intera comunità e non solo gli operatori del sistema penitenziario. Ci vuole un territorio che non abbia paura di confrontarsi con il carcere, in un rapporto in cui questo e la società si arricchiscono a vicenda di risorse e competenze.
Un’altra questione rilevante è quella degli istituti minorili, essendo Buccoliero anche direttrice dell’IPM Beccaria. La detenzione minorile è veramente utilizzata come extrema ratio, riguarda meno di quattrocento ragazzi in tutta Italia. Buccoliero ritiene che la collocazione in carcere sia un fallimento per le istituzioni che non sono state in grado di riabilitare il minore in altro modo. Bisognerebbe insistere sulla prevenzione. Si può e si deve, dice Buccoliero, superare il carcere minorile. La detenzione minorile, ricorda Tizian, in alcuni casi è anche diventata un’università del crimine: gli IPM sono stati anche luoghi in cui “i ragazzi sono entrati per reati minori e sono usciti pronti per prendere in mano il proprio clan”. Citando il giudice Di Bella, “se si fosse stati in grado di leggere prima queste dinamiche forse tanti ragazzi si sarebbero salvati anche da conseguenze estreme come la morte”. 
Che emozioni si provano a lavorare in carcere? Sicuramente non è facile, è “emotivamente struggente”. è complicato mantenere la giusta distanza e razionalità e non farsi coinvolgere; bisogna guardare alle cose con distacco perché altrimenti non si riesce a realizzare l’obiettivo. Buccoliero però guarda con positività alla sua professione: contribuire alla presa di coscienza e alla riabilitazione di una persona che entra in carcere con poche speranze per il futuro “la fa sentire molto utile, è gratificante”.