Il generale Giuseppe Governale parla con Giovanni Tizian del suo ultimo libro Sapevamo già tutto. Perché la mafia resiste e dovevamo combatterla prima, edito da Solferino. Un titolo che pone già il primo interrogativo che fa riflettere e ci porta a chiederci ulteriormente se allora si sarebbe potuto fare qualcosa prima delle stragi di mafia del ‘92.
Il generale è molto a suo agio sul palco e nonostante tocchi temi forti, scene potenti dei grandi omicidi di mafia e racconti la sua professione con rimandi precisi e tecnicismi giuridici, si affianca al pubblico con un fare familiare, quasi confidenziale, con lo scopo di sensibilizzare e soprattutto facilitare la comprensione dei temi.
Durante il dialogo più volte torna alla sua Sicilia, la maggior parte delle volte lo fa per ricordare eventi spiacevoli; cita lo Zen, la condizione di degrado culturale, l’abbandono della scuola, la mancanza nei giovani di conoscenza del territorio, che non fuoriescono neanche dai confini del loro quartiere, la chiusura mentale.
A questi racconti lega l’affermazione che potrebbe racchiudere il senso dell’intera giornata di oggi, se non della undicesima edizione del festival: i mafiosi non temono la giustizia, temono la cultura!
I mafiosi sono bravi a mantenersi lontani dai riflettori, nonostante i trascorsi storici ci segnalino delle anomalie, come il caso di Riina. Anche se hanno da sempre agito con delitti e atrocità, spesso sdoganando i soliti cliché che li hanno voluti persone integre nei confronti di alcune categorie, è il caso di Di Matteo – di anni 12 – barbaramente sciolto nell’acido.
L’abilità a restare fuori dalla ribalta delle notizie sta nella ricerca dei momenti storici in cui non c’è tempo per soffermarsi su alcune tematiche; ne è un esempio la contemporaneità che stiamo vivendo in cui si passa dalla totale attenzione che fino agli scorsi mesi è stata incentrata sulla pandemia da covid, alle successive vicende della guerra tra Russia e Ucraina, mentre la parola mafia sembra scomparsa dai notiziari.
Quello che è importante capire è che la mafia è una malattia sistemica e come tale colpisce più organi che non possono essere curati solo dalla magistratura e dalle forse di polizia, è necessario che altre forze scendano in campo, prima tra tutte la Chiesa: non abbiamo bisogno di eroi, ma di clerici che non si pieghino al volere dei boss, che non passino con le loro processioni sotto i balconi delle case dei capi mafiosi per omaggiarli. Ben vengano le azioni, di papa Woytila prima e di papa Francesco oggi, sulla condanna e la scomunica contro la mafia: abbiamo bisogno di segnali forti come questi, di prese di posizioni ferme.
L’unico modo perché si possa pensare ad una fine del fenomeno malavitoso, che come più volte detto essendo prodotto umano non può che avere un inizio e una fina, è quello di sperare che le nuove generazioni perdano il senso di appartenenza ai clan, così che prendano forma di gangsterismo e poterli sconfiggere.