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Donne contro la ‘ndrangheta

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di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

Francesca Chirico, autrice del libro Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta  e Alessandra Cerreti, magistrato che si è occupato dei due casi in discussione, descrivono le vite e l’esempio di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, giovani donne e madri nate e cresciute nel mondo della criminalità organizzata, le prime in Calabria a scegliere di denunciare le proprie famiglie, nomi importanti della ‘ndrangheta, allontanandosi dalla vita che altri avevano scelto per loro.
In queste vicende si parla di famiglia, centro di gravità per le donne che nascono nella mafia; il ruolo delle donne è infatti indissolubilmente legato al nucleo familiare, tanto che dice Cerreti “il vincolo criminale e quello affettivo nella ‘ndrangheta si sovrappongono perfettamente”. Messaggere tra chi è dentro e fuori dal carcere, intestatarie di beni, intermediarie per racket e usura, le donne rivestono un ruolo fondamentale nella famiglia. Più di tutto sono però madri e in quanto tali educatrici alla cultura mafiosa. Sono garanti dell’apparato culturale, ideologico, fatto di valori e disvalori che stanno alla base della famiglia, apparato che viene messo in discussione quando le due donne decidono di collaborare e testimoniare. 
Nel 2010, quando le due vicende prendono il via, Giuseppina e Maria Concetta hanno circa trent’anni, sono sposate dall’età di tredici. Hanno cresciuto i loro figli da sole come vedove bianche, la definizione che si dà delle spose di carcerati. Provate dai vincoli cui sono costrette dalla malavita,  non vogliono che i figli vivano come loro, che siano costretti a sposare chi non vogliono, che non possano studiare ciò che vogliono, che non possano scegliere il mestiere che vogliono. Sono i figli a fungere da molla nelle due vicende e a convincere “Giusy e Cetta” a denunciare nella speranza di garantire loro un futuro migliore.
Giuseppina viene arrestata nel 2011 insieme ad altri quaranta componenti della famiglia Pesce, il più potente mandamento di ‘ndrangheta calabrese. Non era l’unica donna nel processo; arrestate con lei tre generazioni della cosca Pesce: la sorella, la madre, la nonna. A queste donne viene contestata, insieme ad altre imputazioni, l’appartenenza all’associazione mafiosa, con i ruoli sopra descritti.
Giusy viene separata dai figli. Prima dell’arresto non aveva mai dormito lontano da loro, questo è il suo tormento, tanto da portarla a simulare più volte il suicidio sperando che questo espediente le permetta di uscire dal carcere. Questo sentimento di disperazione è quello che nei mesi di detenzione la spinge a cambiare atteggiamento. Dopo reiterati tentativi di suicidio fasulli arriva in procura una sua missiva: “voglio essere sentita senza il mio avvocato”. Durante il colloquio si profila la possibilità di libertà per i suoi figli, di concedere loro una nuova vita: questo funge da motore per l’inizio della collaborazione, fatta di alti e bassi.
Nell’aula bunker di Palmi al maxiprocesso del 2011/2012 il clima è teso anche perché ad accusare i Pesce sono donne (PM, collegio giudicante e le due collaboratrici di giustizia) e ai Pesce, come alla ‘ndrangheta in generale, non piacciono le donne fuori dal loro controllo – chiederanno finanche di sostituire il magistrato donna con un uomo. La collaborazione provoca una reazione più che proporzionale rispetto al contributo conoscitivo che Giuseppina Pesce ha dato alla magistratura (si parla di beni sequestrati per 250 milioni di euro); l’aspetto che più destabilizza ed offende i Pesce non sono le conseguenze delle dichiarazioni di Giuseppina ma che la donna abbia dimostrato che ci si può ribellare al loro dominio. “Le donne come te ci vogliono togliere il potere” dirà un parente della Pesce.
Il precedente creato da Giuseppina Pesce è galeotto nella vicenda di Maria Concetta Cacciola: è l’effetto che più temono le cosche, che episodi di questo tipo fungano da esempio.
Maria Concetta si reca in commissariato per risolvere delle pratiche amministrative e incontra una giovane marescialla con la quale sente di aprirsi e raccontare la propria storia: è in un brutto periodo della sua vita, sposata giovanissima e con figli da crescere da sola perché il marito è in carcere, si innamora di un altro uomo conosciuto su internet. A casa sono arrivate lettere anonime in cui si sdogana il suo “cattivo comportamento” e fanno temere alla giovane che il fratello “possa andare da lei e dirle di seguirlo per poi portarla in campagna e ucciderla”. Viene messa sotto protezione ma decide di non portare con sé i figli, che verranno usati come arma di ricatto da parte della famiglia che la costringerà a tornare a casa e ritrattare le proprie dichiarazioni. Solo dopo aver ritrattato si renderà conto dell’errore commesso e inizierà a temere per la sua vita; si metterà in contatto con le forze dell’ordine per organizzare una nuova fuga ma il tempismo sarà fatale: verrà ritrovata sfregiata dall’acido. Maria Concetta Cacciola muore il 20 agosto 2011.
La ‘ndrangheta vive di simboli: l’acido muriatico si usa per scrostare il water: “tu mi tradisci con la bocca e io ti punisco dalla bocca”, spiega Cerreti. Inoltre, anche solo un sorso è in grado di creare escoriazioni tali da distruggere gli organi interni. Se un sorso procura questo è bene ricordare che la Cacciola ne avrebbe bevuto un litro per il suo presunto suicidio. Per i familiari l’immediata preoccupazione sarà depositare il nastro di ritrattazione e una denuncia contro il magistrato. Ne nascerà un circo mediatico volto a smontare il sostrato delle dichiarazioni rese da Cacciola, non riuscito grazie all’ottimo lavoro della magistratura.
Con Cacciola finiscono le collaborazioni delle donne di mafia, il cupo finale della vicenda segna un freno. Dalla riflessione nasce il protocollo Liberi di Scegliere, una struttura che mira alla tutela delle collaboratrici e dei loro figli.
“Mi piace immaginare la morte di Maria Concetta non come un sacrificio inutile, ma l’inizio di un percorso in evoluzione che permetta di aiutare tante donne e i loro figli” dice Cerreti. Le due erano giovani donne per le quali la denuncia ha avuto una funzione quasi liberatoria, di autoriflessione, conviene Chirico. “I loro racconti descrivono una realtà da far west dove c’è solo un “noi”, la famiglia e un “loro”, le forze armate”. Tutto il resto, quello che sta nel mezzo, non è mai esistito nella vita di queste donne. Queste due giovani consegnano a tutti noi uno spaccato di vita sul quale siamo chiamati a riflettere, prima di tutto sul piano culturale.

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