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Il carcere può essere un luogo di redenzione? Si eviti l’identificazione tra persona e il reato: parliamo di persone.

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di Maria Elena Saporito e Lydia Masala

Il primo incontro della terza giornata di Trame Festival è dedicato al tema del sistema carcerario italiano. Al dibattito hanno partecipato Cosima Buccoliero, vicedirettrice dell’Istituto Penitenziario di Opera, e Giovanni Tizian. Cosima Buccoliero proviene dall’esperienza di dirigenza di un carcere “modello”, quello di Bollate, una realtà carceraria che dà reale possibilità di reintegrazione ai suoi detenuti. Oggi si rapporta a una realtà ben più dura, interfacciandosi con numerosi detenuti al 41bis. La questione centrale introdotta da Giovanni Tizian è delicata e complessa: come spiegare ai cittadini che il carcere non è solo violenza, quella violenza che fa cronaca come nelle recenti circostanze impresse nelle immagini di Santa Maria Capua Vetere, ma è e può essere qualcosa di diverso?Buccoliero, consapevole di come queste immagini siano ben impresse nella riflessione collettiva del momento, risponde che non possiamo e non dobbiamo dimenticare questo tipo di episodi. Le vicende di S. M. Capua Vetere non possono essere liquidate come “episodi sporadici delle classiche mele marce. Sono il sintomo che qualcosa nelle carceri non funziona, di una ferita non solo alla democrazia ma per tutti quelli che lavorano duramente perché tutto funzioni”. 
Buccoliero nota infatti che la Ministra Cartabia e il Presidente Draghi si sono recati immediatamente a S. M. Capua Vetere per far sentire la presenza delle Istituzioni, e spera che questo sia indice di un'apertura alla riflessione sull’argomento penitenziario.Il Covid ha reso tutto più difficile, si rischia di far cadere nel vuoto queste istanze e sollecitazioni al cambiamento e ciò non deve accadere. Bisogna fare una riflessione critica. Benché l’Italia si trovi a un livello simile agli altri paesi europei, c’è ancora molto da fare nella tutela dei diritti dei detenuti e nella riforma del sistema carcerario.Con Bollate è stato relativamente più facile istituire una realtà nuova in quanto il carcere è stato costruito da zero, tenendo conto anche degli spazi necessari rendere efficienti le attività; non per questo però una realtà del genere non è realizzabile anche in altri luoghi. 
Tra le più recenti iniziative spicca la creazione di un asilo nido, aperto per i figli dei dipendenti, dei detenuti e della comunità cittadina. I risultati dell’iniziativa testimoniano che il carcere non solo riceve ma può essere al servizio del contesto in cui si colloca. Oltre agli spazi, serve un ampio apparato di risorse formative, personale qualificato per favorire lo svolgimento delle attività. Quello che serve non sono nuove carceri, ma una nuova filosofia. 
Non basta la legge, dice Buccoliero, in concreto deve esistere un pensiero che sia alla base del progetto per creare tutte le condizioni per l’attuazione della legge. In carcere, nota, l’organizzazione si basa molto sulle consuetudini: l’istituzione chiede il cambiamento da parte dei detenuti, però resta sempre uguale a sé stessa. Non cambia mai e non è disposta a farlo. Questo è un dato di fatto, indice di un problema che è indispensabile affrontare. Serve la volontà da parte tanto dello Stato quanto della comunità, che “deve chiedersi se vuole che i condannati marciscano in galera o tentino di riprendersi la propria vita ed emanciparsi”.
Tizian introduce inoltre il tema del reinserimento e delle opportunità fornite agli ergastolani, che come ricorda Buccoliero sono poco più di mille in tutta Italia e possono comunque accedere a permessi premio e alla libertà condizionale. La certezza del diritto, ricorda Buccoliero, è assicurata dalle sanzioni previste per fattispecie penali specifiche, ma il nostro ordinamento costituzionale prevede anche la flessibilità della pena, che dà speranza alle persone: “non si può lavorare con chi non ha speranza, sarebbe come condannarli a morte”. Il focus della riflessione si sposta poi sui detenuti al 41bis, il cosiddetto “carcere duro” che, dice Buccoliero, non lascia spiragli di interpretazione e non ammette nessuna deroga: si vive in solitudine praticamente tutta la giornata. Nel 41bis non c’è spazio per la socializzazione. Le aperture ci sono però dove ci sono competenze proprie e la volontà di uscire da questo regime: molti detenuti studiano all’università, altri, passati dal 41 bis sono arrivati alla media sicurezza, al regime comune. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema, avvalorando la tesi secondo la quale un ergastolo che non prevedesse la possibilità di uscita sarebbe anticostituzionale.
È quindi spontaneo domandarsi perché un assassino, uno stupratore, un ladro dovrebbero avere un’altra opportunità. Buccoliero sostiene che si debba evitare l’identificazione tra persona e il reato: parliamo di persone. Una condanna scontata non può e non deve essere vincolante a vita. Ci sono le sentenze, ci sono le condanne, ma non è tutto qui. Racconta dell’esperienza delle “biblioteche viventi” a Bollate, in cui i detenuti raccontano le proprie storie a persone esterne: ciò determina un cambiamento di atteggiamento immediato in queste persone che si domandano se in effetti chi ha commesso un reato possa essere riabilitato in società.
Proprio grazie al successo del “modello Bollate” molti detenuti fanno richiesta per esservi assegnati. Prima della pandemia, almeno 350 dei 1350 detenuti del carcere uscivano per svolgere attività per motivi di lavoro o di studio e “questo non ha creato allarmismo nella città di Milano [...] Non ci sono state grandi criticità, questo vuol dire che funziona. La fiducia riposta nei confronti di una persona, di uscire anche prima della data prevista dalla sentenza di condanna evidentemente funziona”. Buccoliero ricorda quindi esperienze positive di detenuti che in carcere vengono inseriti nei percorsi CiscoSystems, che permettono di acquisire certificazioni di formazione professionale e essere assunti da aziende. Bisogna mettere insieme le sinergie, la sensibilità del territorio fa la differenza. Non è facile avere a che fare con il carcere, però quando si riesce a trovare una quadra tra garanzia di sicurezza e garanzia di trattamento si ha successo. La pena è infatti un fatto sociale, che riguarda l’intera comunità e non solo gli operatori del sistema penitenziario. Ci vuole un territorio che non abbia paura di confrontarsi con il carcere, in un rapporto in cui questo e la società si arricchiscono a vicenda di risorse e competenze.
Un’altra questione rilevante è quella degli istituti minorili, essendo Buccoliero anche direttrice dell’IPM Beccaria. La detenzione minorile è veramente utilizzata come extrema ratio, riguarda meno di quattrocento ragazzi in tutta Italia. Buccoliero ritiene che la collocazione in carcere sia un fallimento per le istituzioni che non sono state in grado di riabilitare il minore in altro modo. Bisognerebbe insistere sulla prevenzione. Si può e si deve, dice Buccoliero, superare il carcere minorile. La detenzione minorile, ricorda Tizian, in alcuni casi è anche diventata un’università del crimine: gli IPM sono stati anche luoghi in cui “i ragazzi sono entrati per reati minori e sono usciti pronti per prendere in mano il proprio clan”. Citando il giudice Di Bella, “se si fosse stati in grado di leggere prima queste dinamiche forse tanti ragazzi si sarebbero salvati anche da conseguenze estreme come la morte”. 
Che emozioni si provano a lavorare in carcere? Sicuramente non è facile, è “emotivamente struggente”. è complicato mantenere la giusta distanza e razionalità e non farsi coinvolgere; bisogna guardare alle cose con distacco perché altrimenti non si riesce a realizzare l’obiettivo. Buccoliero però guarda con positività alla sua professione: contribuire alla presa di coscienza e alla riabilitazione di una persona che entra in carcere con poche speranze per il futuro “la fa sentire molto utile, è gratificante”.

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